ECLASSE - saluto del prof. Lanfranco Vado

Il prof. Lanfranco Vado, nel congedarsi dalla scuola in cui ha insegnato per diversi decenni, ha scritto un  discorso di saluto rivolto al Collegio dei Docenti. Poichè non c'è stata l'occasione di pronunciarlo durante l'ultima riunione collegiale, lo pubblichiamo affinchè chi vuole possa leggerlo.

 

E C L A S S E

ovvero

Ecl (issi della cl) asse

 

Negli ultimi tempi, ogni giorno di più, mi sono ritrovato ad affrontare il mio lavoro di insegnante come un muratore costretto a demolire oggi quanto ha edificato ieri, per  rimettere mano alle fondamenta che in corso d'opera si dimostrano immancabilmente inadeguate a reggere l'edificio in via di costruzione.

  Fino a un recente passato, l'ambiente umano entro il quale si perseguivano le finalità costituzionali dell'istruzione pubblica era la classe: quel soggetto collettivo in cui i singoli, in qualità di componenti del gruppo, partecipavano democraticamente al dialogo educativo col corpo docente. Era una palestra in cui ognuno affilava Ie proprie armi attraverso l'interazione con gli altri coetanei.

  Ebbene, una volta per tutte, dobbiamo essere consapevoli che tutto ciò appartiene a una stagione storica oramai trascorsa da decenni!

    È sufficiente dare uno sguardo alle proiezioni demografiche degli ultimi cinquant'anni, per notare chiaramente che i Decreti Delegati sono stati introdotti quando la popolazione scolastica costituiva da sola più della metà di quella nazionale. Gli scolari e gli studenti provenivano mediamente da famiglie con 3/4 figli. La capacità d'interazione con gli altri cominciava a formarsi già dalla nascita nel micro-cosmo di provenienza. I ragazzi a scuola ritrovavano relazioni analoghe a quelle familiari appena più allargate. Al di là della demagogica retorica della famiglia, la tradizione considerava fondamentali i figli per il ruolo ideale che essi ricoprivano in quel sistema di valori; di fatto  la società adulta riservava ai giovani un'attenzione inversamente proporzionale al loro numero.

  Quella situazione, come tutti sappiamo, è radicalmente mutata. Oggi la popolazione in età scolare rappresenta un'esigua minoranza rispetto alle fasce d'età matura e senile; devianze a parte, ogni singolo bambino, ragazzo, giovane vale un tesoro, per i genitori che l'allevano e per la scuola che l'adotta. La classe che in passato costituiva il terreno entro il quale si incontravano e si scontravano dinamiche e schieramenti per lo più d'ordine collettivo, si è andata via via trasformando in una pura e semplice somma di individui. Attualmente nella nostra scuola di ogni ordine e grado si realizza quotidianamente ciò che Jean Piaget più di mezzo secolo fa osservava fra i bambini delle scuole per l'infanzia: il monologo collettivo, in cui parlano tutti assieme, ma ciascuno a titolo individuale, presumendo di instaurare con l'insegnante un esclusivo rapporto personale.            

  L'evidenza di tali considerazioni  è confermata dalla sfilza di acronimi (DA, DSA, BES, ecc.) con cui la società fa carico alla pubblica istruzione della sempre più ampia varietà di  casi singolari, che per partenogenesi continuano a moltiplicarsi senza fine!

  Su tutto ciò non intendo elargire sentenze, vorrei soltanto rilevare che la didattica per Ie suddette ragioni non può più rivolgersi indistintamente alla classe, sperando che la sua azione giunga naturalmente alle personali esigenze formative di ogni singolo studente. L'atteggiamento che i discenti oggi assumono nei confronti dell'istituzione educativa è lo stesso che rivolgono ai reparti della grande distribuzione dei beni di consumo: ognuno a titolo privato sceglie fra Ie varie offerte, senza condividere i propri bisogni culturali col resto della classe. Ciò probabilmente perché Ie occasioni di condivisione si sono ormai trasferite dal contesto reale dei rapporti personali a quello delle piattaforme virtuali.

  In altri sistemi educativi europei, che subiscono come il nostro Ie conseguenze delle grandi trasformazioni demografiche in corso, viene già concretamente applicata la didattica aperta agli interessi dei singoli allievi, che si dedicano alle varie attività individualmente o per piccoli gruppi, salvo restando per ognuno il dovere di un certo numero di presenze per tutte le discipline. È ciò che avviene in modo limitato anche nel nostro istituto, nel corso Musicale e talvolta nell'Artistico, ma solo per Ie materie di indirizzo, in cui il rapporto docente-discente si realizza spesso attraverso una didattica individualizzata.

  Comprendo e apprezzo quindi i ripetuti appelli della nostra preside al Collegio per una didattica sempre più “flessibile” - per classi aperte o per fasce di livello - capace di andare incontro alle richieste educative della società attuale. Le intenzioni sono certamente buone, resta tuttavia il “nodo gordiano” delle discipline dell'area comune: Italiano, appunto, Lingua straniera, Storia, Storia dell'Arte, Filosofia, Scienze, Matematica, Fisica, Scienze Motorie. Ancora oggi, volenti o nolenti, sono queste Ie materie che costituiscono l'asse portante del nostro sistema scolastico, e per allargare la flessibilità alla totalità del monte ore di quest'area si dovrebbero almeno raddoppiare Ie attuali risorse disponibili. Potrei aver capito male, ma da qualche decennio a questa parte mi pare di aver sentito parlare solo ed esclusivamente di “tagli alla spesa”; ancora una volta si vorrebbero allestire Ie “nozze con i fichi secchi”, o per usare una locuzione più attuale “organizzare i soccorsi, ributtando a mare i naufraghi”.  È così che l'indifferenza dell'opinione pubblica, e di chi l'alimenta, a tali urgenti necessità della scuola risponde sbrigativamente: «Beh ragazzi piantatela, adesso si torna tutti in classe!» Ma di quale classe parliamo? Come se in questi ultimi cinquant'anni in Italia e nel mondo niente fosse cambiato.

  Cari colleghi, credetemi, chi vi parla ha sempre svolto con passione il proprio lavoro, ma non sono più disposto a rappresentare una commedia ormai uscita di scena da anni e che il menefreghismo dilagante continua per pigrizia e per inerzia a replicare. La classe è ormai soltanto un lontano ricordo, a cui si guarda forse con rimpianto, ma è necessario trovare il coraggio di rivendicare tutte le risorse necessarie per una didattica totalmente diversa, che ponga al centro dell'istituzione formativa Ie particolarissime esigenze educative di ogni singolo ragazzo e adolescente del mondo attuale. Questo mio appello lo rivolgo a chi per anzianità di servizio condivide con me le spiacevoli conseguenze dell'anacronistica didattica con classi eclissatesi da tempo; ma è indirizzato soprattutto ai colleghi più giovani, che hanno ancora da lavorare a lungo in una scuola con questi e tanti altri problemi irrisolti. Non continuate a perpetrare voi stessi la logica dei “primi della classe”, secondo cui vi sono docenti validi e preparati ed altri ai quali far carico del mal funzionamento della pubblica istruzione. Con questo “uovo di Colombo” si offre su un piatto d'argento l'argomento principe a chi non ha alcun interesse che Ie cose cambino e attribuisce ai singoli Ie responsabilità che invece dovrebbero assumersi coloro che hanno l'effettivo controllo dei mezzi e delle pubbliche risorse per affrontare una riforma davvero strutturale; certo esistono diversi gradi di merito professionale, ma dovunque e in qualsiasi ambito di lavoro,  vi saranno sempre i missionari e i lavativi. State pur certi, tuttavia, che se cercate esclusivamente su questa strada uno straccio di gratificazione professionale - fidatevi chi ve lo dice talvolta c'è cascato - saranno ben poche Ie soddisfazioni!

  Per trovare puntuali conferme e rafforzare Ie motivazioni necessarie al nostro lavoro che, in sé e per sé, ricordatevelo, è uno dei mestieri più belli al mondo,  dovrete rivendicare migliori condizioni operative, maggiori ed effettive opportunità di intervento, adeguandole alle necessità dei tempi. E tutto ciò non riuscirete a farlo senza la costituzione una volta per tutte di un saldo senso di appartenenza alla nostra categoria: il tanto bistrattato corpo docente. Smettiamola di darci addosso noi stessi, se la classe è una categoria “rottamata” dall'età post-moderna, i vincoli di solidarietà su cui si fondava ci mancano, eccome!  Se la classe non la troviamo più nelle aule, ricerchiamola anzitutto fra noi insegnanti, sforzandoci di tradurre rivalità  e conflittualità in altrettante occasioni confronto. Insomma è il solito predicozzo che tante volte abbiamo fatto ai nostri ragazzi... dovremmo semplicemente rivolgerlo a noi stessi! 

 

        26 Giugno 2019                                                                      Lanfranco Vado

 

 

Le artiste nella storia: Charlotte Salomon

Il talento di Charlotte Salomon (1917 - 1943), giovane artista ebrea berlinese, prende forma durante il nazismo. La sua vicenda artistica si concentra in una sola opera Vita? o teatro?, una raccolta di circa ottocento immagini con cui l’autrice ripercorre la propria vita, in uno stile che fa incontrare la pittura con il fumetto e il cinema. L’opera si conclude poco prima che l’autrice venga prelevata dalle SS ed “eliminata”, ventiseienne, ad Auschwitz. 

Charlotte narra di se stessa e della sua famiglia ricorrendo contemporaneamente alla illustrazione, alla scrittura poetico filosofica e al commento musicale. Il linguaggio, all’epoca decisamente inedito, varia a seconda del soggetto trattato; la continua metamorfosi stilistica è testimoniata da centinaia di fogli che toccano in modo diretto o metaforico le esperienze salienti della formazione affettiva e culturale della pittrice. 
Charlotte nasce il 16 aprile 1917 da genitori entrambi ebrei: Albert Salomon è chirurgo e professore universitario, Franziska Grunwald è infermiera. La madre, quando Charlotte ha nove anni, si uccide lanciandosi da una finestra; ma alla bambina viene raccontato che essa è morta per una grave malattia. Ugualmente, le viene nascosto che questo è solo l’ultimo di una serie di suicidi tra le donne della famiglia. 
Per quattro anni Charlotte è affidata a un’istitutrice, poi il padre si risposa con Paula Lindberg, contralto di fama. Sentimenti di adorazione e di gelosia si confondono nel rapporto con la matrigna, che diviene una importante figura di riferimento per Charlotte. Attraverso Paula la giovane si accosta alla musica e all’arte, mentre nel paese cresce il consenso al nazionalsocialismo. 
Nel 1933, con Hitler al potere e le leggi razziali, i nonni materni di Charlotte emigrano prima in Italia, poi in Francia a Villefranche-sur-Mer. Albert Salomon resiste in Germania con la famiglia e tenta ancora per qualche tempo di esercitare la propria professione. Nel 1935 Charlotte viene accettata, unica «giudea al cento per cento», alla Scuola Nazionale dell’Accademia di Belle Arti di Berlino; qui apprende le tecniche tradizionali, ma produce anche lavori che mostrano l’influenza di alcune opere moderne, presenti nella Biblioteca dell’Accademia e scampate alla campagna hitleriana contro la cosiddetta “arte degenerata”. L’esperienza in Accademia porta a Charlotte Salomon nuove amicizie e affetti, ma è segnata anche da discriminazioni, come l’esclusione per motivi razziali da un concorso che la vedeva favorita. 
La situazione politica tedesca precipita con la “Notte dei Cristalli”: il 9 novembre 1938 le sinagoghe vengono assalite, 30 mila ebrei vengono avviati nei lager, i loro negozi distrutti. A seguito di una breve detenzione del padre, che verrà liberato grazie agli sforzi della moglie Paula, Charlotte decide di abbandonare Berlino e raggiungere i nonni materni in Francia; dal canto suo il padre parte con la moglie per l’Olanda. 
Una notte di settembre del 1939 (anno segnato dalle prime aggressioni italo-tedesche), Charlotte sventa il suicidio della nonna, caduta in depressione a causa degli eventi; in questa occasione la giovane viene informata sul tragico passato familiare. L’esperienza stravolge Charlotte, che alterna fasi di ansia a depressione fino a temere di perdere la ragione. 
È a questo punto che la giovane si aggrappa all’arte come ad una possibilità salvifica; Charlotte inizia a dipingere con energia instancabile, decisa a «creare qualcosa di veramente folle e singolare». 
Infatti in meno di due anni (1940-1942) elabora un’opera completa che fa incontrare teatro, pittura e musica: la intitolerà Vita? o Teatro? 
Le tavole rilegate del suo “capolavoro” nella stesura finale sono 800, che con i disegni preparatori, le prove e la produzione di contorno diventano più di 1300. In esse Charlotte Salomon rielabora i lutti subiti e il rapporto con la seconda madre, rievocando anche l’esilio in Francia e la brutalità dell’ascesa del nazismo. 
La testimonianza della shoah da parte della pittrice è legata soprattutto ad alcune scene che registrano le campagne di odio nei confronti degli ebrei, la tracotanza delle parate naziste, gli atti inauditi di violenza, la confusione e il terrore della popolazione inerme di fronte alle continue aggressioni.  
Come una poderosa graphic novel, le gouache per impianto e composizione risentono delle arti  del cinema e della fotografia, in una sintesi originale che è illustrazione, pittura, grafica, racconto, acquisizione piena delle estetiche a Charlotte contemporanee. 
Le opere percorrono la storia di famiglia fin dal 1913, anno in cui si era suicidata la zia diciottenne di cui la pittrice porta il nome. Vita o Teatro? descrive le trasformazioni sociali durante il nazismo, l’esilio, i luoghi di riferimento, l’amicizia e gli amori: quello per un giovane musicista e filosofo, reduce amareggiato e tormentato della Prima Guerra Mondiale; quello per Alexander Nagler, che restituisce serenità alla pittrice tanto che alla fine i due si sposano e vanno a vivere insieme. 
Attraverso questo percorso artistico Charlotte esprime liricamente una materia altrimenti tragica e distruttiva, si apre a nuovi progetti e riprende voglia di vivere, almeno per il tempo che le rimane. 
Ma il mondo va incontro alla fase parossistica della guerra, la coppia viene presa nel corso di una retata e l’artista, incinta di pochi mesi, finisce in camera a gas il giorno stesso dell’arresto. 

charlotte-salomon
Il racconto della sua vita è stato tratto in salvo da un’amica americana, Ottilie Moore, che lo ha riconsegnato ai familiari dopo la guerra; attualmente esso è custodito presso il Joods Historisch Museum di Amsterdam.

Fonti, risorse bibliografiche, siti

Katia Ricci, Charlotte Salomon, I colori della vita, ed. Palomar, Bari, 2006

enciclopediadelledonne.it

Prof.ssa Lidia Piras

(docente di Storia dell’Arte, studiosa di Arte al femminile)

Le donne e l'arte: Margherita Grassini Sarfatti

Ritratto_di_Margherita_Sarfatti_anni_-20_Mart

 

Ai primi del ‘900 la letterata Margherita Grassini  (Venezia 1880 - Cavallasca, Como, 1961) fu la prima donna in Europa ad occuparsi di critica d’arte, dimostrando versatilità e competenza. Tuttavia oggi viene comunemente ricordata soprattutto perché, pur provenendo da una famiglia ebrea, negli anni ‘10 diventò amante di Mussolini pianificandone la politica culturale fino alla svolta delle leggi razziali, quando per lei divenne opportuno espatriare.

In realtà, per quanto contraddittoria, la vicenda umana e professionale della Sarfatti (cognome del marito che lei stessa usa di preferenza) non merita le facili riduzioni. Come altri personaggi del suo tempo, la Grassini sembra attratta in modo ricorrente dai percorsi contrastati e fiammeggianti di passioni: sotto alcuni aspetti dimostra il suo impegno contro la discriminazione sessista, scrivendo e finanziando dei periodici femministi; sotto altri aspetti evidenzia una tendenza a misurarsi soprattutto con il modello di successo maschile, rappresentato prima dal padre, poi dal marito, da Mussolini e persino da alcuni artisti con cui in tempi diversi instaura una relazione sentimentale. Margherita si muove spesso su un crinale di improbabili equilibri: nel periodo di impegno socialista scrive sull’Avanti! e si batte per l’uguaglianza; tuttavia non riesce a rinunciare al lusso e ai privilegi di casta, tanto che di frequente viene criticata dalla sua stessa cerchia. Scrive sul periodico Unione femminile, collabora fino al 1915 alla pubblicazione La difesa delle lavoratrici, frequenta la Kuliscioff; ma il suo emancipazionismo naufraga di fronte al mito dell’uomo-guida, dell’amour fou a cui immolarsi.
Margherita si forma sugli scritti di John Ruskin, legge Marx, Turati e Anna Kuliscioff. Nel 1898 sposa giovanissima, a dispetto della famiglia, un avvocato socialista da cui avrà tre figli; con lui, che ha tredici anni più di lei, imposta il matrimonio in modo libertario. Si impantana per quasi vent’anni nella relazione con Mussolini, anche lui sposato ma geloso al pari di lei. Animata da uno spiritualismo tormentato (segnato tra l’altro dal suicidio di una sorella) Margherita esita tra la fede ebraica e il cattolicesimo, a cui si converte nel 1928. La Grassini trasforma anche la propria visione politica, inizialmente affine al socialismo, in un convinto nazionalismo e progressivamente si coinvolge nell’avventura fascista. Appoggia il regime, ma discute con Mussolini a proposito dei gerarchi in ascesa, che lei considera volgari e pericolosi. Il rapporto con lui attraversa alti e bassi, finché si deteriora ed entra in piena crisi; la Sarfatti fugge quando vengono approvate le leggi razziali e ritorna solo alla fine del conflitto mondiale, per trascorrere gli ultimi anni lontana dalla ribalta a cui era abituata.
Gli scritti e le testimonianze concordano sulla poliedrica intelligenza di Margherita e sulla vastità della sua cultura: la Grassini cresce in una famiglia veneziana assai agiata e dispone di maestri eminenti; sensibile intenditrice d’arte, condivide con il marito Cesare il desiderio di una vita sociale più vivace; perciò nel 1902 si trasferisce con lui a Milano, dove dà vita ad un salotto frequentato dai più promettenti artisti del momento e guida iniziative culturali importanti. Conosce quattro lingue e incontra personalità di fama: dal futuro pontefice Pio X, alla regina Elena di Savoia, a Guglielmo Marconi, a Joséphine Baker; si circonda di numerosi artisti: letterati (Ada Negri, Fogazzaro, Marinetti, Shaw, Cocteau, D’Annunzio, Prezzolini, Palazzeschi, Panzini), scultori (Adolfo Wildt, Arturo Martini), architetti (Sant’Elia e Terragni), pittori (Sironi, Marussig, Carrà, Russolo, Boccioni).
L’incontro anche sentimentale con il giovane Mussolini avviene nel 1912 su posizioni socialiste, da cui entrambi si allontanano in quanto interventisti per fondare Il Popolo d’Italia; ma la realtà della Prima Guerra Mondiale è durissima: nel 1918 muoiono al fronte anche ragazzi come il diciassettenne Roberto, figlio di Margherita; in questa fase gli ideali di sacrificio e dedizione patriottica – che avevano animato il figlio – non vengono messi in discussione dalla Grassini, ma anzi diventano un riferimento consolatorio per lei, che in seguito pubblicherà un volume in versi dal titolo I vivi e l’ombra, dedicato al figlio.
Morto il marito nel 1924, Margherita accompagna in modo sempre più scoperto l’affermazione di Mussolini e del partito; esperta organizzatrice di eventi, collabora al piano della marcia su Roma, agli scritti teorici del fascismo e in pieno regime assume anche incarichi ufficiali. Probabilmente la Grassini, forte della stima di cui gode già da tempo a livello internazionale per i suoi scritti, è convinta di poter guidare le scelte politico-culturali del regime e sottovaluta la progressione del clima antisemita. Infatti, sulla questione ebraica Mussolini cambia nel tempo la sua posizione, passando da una iniziale tolleranza all’assunzione piena del modello nazista. Anche rispetto alla donna che lo sostiene egli muta atteggiamento: pur apprezzandone la bellezza la definisce avara e sordida, secondo uno stereotipo collaudato dalla propaganda fascista nel descrivere gli ebrei. Eppure il duce ha ricevuto da Margherita grande sostegno economico oltre che morale. Anche il miglior biglietto di presentazione ai governi stranieri gli giunge dalla Sarfatti: nel 1926 la scrittrice pubblica Dux,

Risultati immagini per margherita sarfatti

la biografia mussoliniana che adula il capo e lo descrive vitale, spregiudicato, sensuale e aggressivo, energico portatore di ciò che viene indicato come spirito italico; con la sua consueta padronanza della scena, Margherita presenta il libro negli USA assicurandogli un enorme successo.

Finché Mussolini è impegnato nella prima organizzazione dello Stato fascista, la Grassini ha notevole spazio: probabilmente sono sue alcune parole chiave della propaganda fascista, come fascio e duce; è sua la mistica della romanità resuscitata dal fascismo; è lei a rendere credibile all’estero l’immagine del duce. Il desiderio mussoliniano di grandezza si arma della competenza di Margherita, che intende correggere il cattivo gusto dell’estetica fascista e assumere il ruolo di musa e mediatrice.
Del resto Margherita è un’autorità nel campo dell’arte, e da sempre ama valorizzare i talenti orchestrandone la riuscita: incoraggia e protegge i giovani artisti (con Umberto Boccioni ed Emilio Notte ha avuto anche brevi relazioni), persegue il disegno di una nuova società in cui l’arte sia sovrana. La sua visione mescola esaltazione spirituale e residui risorgimentali, spirito pedagogico e individualismo; in questo quadro gli artisti sono determinanti per la costruzione del futuro.
Tra le due guerre l’arte europea, accantonando l’impeto destabilizzante delle Avanguardie, è pronta a rivalutare il realismo classico; in Italia Margherita Grassini Sarfatti auspica appunto un ritorno al classicismo. Con entusiasmo dà corpo al suo progetto, che intende coniugare la modernità con la monumentalità del Rinascimento. Infatti, nel 1922 fonda il gruppo noto come Novecento, al quale inizialmente aderiscono sette pittori (A. Funi, P. Marussig, L. Dudreville, E. Malerba, M. Sironi, U. Oppi e A. Bucci); alcuni di loro se ne allontanano presto per timore di essere strumentalizzati, ma il gruppo si ricostituisce nel 1926 con il nome di Novecento Italiano e raccoglie, data la protezione assicurata dal regime, un numero assai alto di adesioni. Nonostante le pressioni di chi vuole ridurre la cultura a semplice strumento di regime, per qualche tempo la Sarfatti riesce a mantenere questa iniziativa lontana dai toni più volgarmente propagandistici, tenendo fede alle motivazioni artistico culturali che la animano.
Negli anni successivi la Grassini si interessa all’architettura razionalista, privilegiando progettisti volti al contemporaneo come Terragni, Figini, Michelucci e Pollini. Proprio al giovanissimo Terragni, di cui capisce e protegge il talento, Margherita commissiona il monumento funebre per il figlio Roberto, ignorando altri professionisti più in vista, ma non ugualmente radicali. Inoltre promuove la valorizzazione delle arti applicate con il fine di coniugare modernità e tradizione: rinnova la Biennale di Monza e istituisce la Triennale di Milano, facendovi costruire il Palazzo dell’Arte.
Sebbene aspiri a raccogliere in Novecento l’intera ultima produzione artistica italiana, Margherita è comunque aperta a tutti i fenomeni emergenti e interessata alle differenze estetiche; ma nel frattempo il Ministero della cultura si trasforma in un rissoso centro di potere, da cui le arrivano attacchi sempre più numerosi. Mentre all’estero le finalità artistiche di Novecento riscuotono grande successo, in Italia alla Sarfatti viene meno buona parte degli appoggi. L’emarginazione di questa lucida intellettuale coincide in architettura con l’adozione da parte del regime di un freddo e retorico stile littorio, ben lontano dalla sobrietà formale del razionalismo.
Il tentativo grassiniano di dare al fascismo una piattaforma ideale ormai è diventato ingombrante: Margherita non concorda con le imprese coloniali, non approva l’intensificarsi dei rapporti con la Germania nazista, si scontra con l’ostilità di gerarchi avidi e senza scrupoli come Farinacci e Starace; nel contempo percepisce la perdita di interesse nei suoi confronti da parte di Mussolini. Nel 1938, di fronte al clima così mutato, la Sarfatti fugge all’estero; la sua famiglia invece vive in pieno le vicende del totalitarismo antisemita, tanto che una sorella (Nella Grassini Errera) rimarrà vittima del lager ad Auschwitz.
Margherita soggiorna prima a Parigi dove frequenta tra gli altri Jean Cocteau, Colette e Alma Mahler; infine si stabilisce in Sud America, dato che il suo desiderio di essere accolta negli USA non ha trovato risposta. Ritorna in Italia alla fine della guerra e nel 1955 riesce a far stampare una autobiografia dal titolo Acqua Passata, dove il rapporto con Mussolini è quasi ignorato. Resta invece inedito a lungo il primo manoscritto delle sue memorie intitolato Mea culpa, pubblicato solo post mortem con il titolo My fault. Negli ultimi anni Margherita si isola nella sua villa di Cavallasca, vicino a Como, dove morirà nel 1961.

Fonti, risorse bibliografiche, siti

Tra le opere emergono diverse monografie di artisti e altri scritti:
La milizia femminile in Francia (1915);
I vivi e l'ombra: liriche (1924);
Segni, colori e luci (1925);
Dux (1926);
Il Palazzone: romanzo (1929);
Storia della Pittura Moderna (1930);
L'America, ricerca della felicità (1937);
Acqua Passata (1955).

Mostra dedicata al Mart Rovereto

Links ad altre biografie:

http://www.treccani.it/enciclopedia/margherita-grassini_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&cad=rja&uact=8&ved=0ahUKEwjT0qftmIXZAhXBKewKHXu6Bv0QFggoMAA&url=http%3A%2F%2Fwww.storiadimilano.it%2FPersonaggi%2FRitratti%2520femminili%2Fsarfatti.htm&usg=AOvVaw3U3qPVYYjOgYqvJcGABeKY

http://www.girodivite.it/antenati/xx2sec/sarfatti/salotto_sarfatti.htm

http://www.sulromanzo.it/

http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&cad=rja&uact=8&ved=0ahUKEwiv6eT4mYXZAhUysaQKHdmtACoQFggoMAA&url=http%3A%2F%2Fricerca.repubblica.it%2Frepubblica%2Farchivio%2Frepubblica%2F1989%2F04%2F29%2Fquando-dux-entro-nella-sua-vita.html&usg=AOvVaw1HdQ1TJujYuhje4iti19Du

http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=10&cad=rja&uact=8&ved=0ahUKEwiE0I6u2azYAhUEvBQKHSClC4sQFghuMAk&url=http%3A%2F%2Fwww.sassodiasiago.it%2Fmargheri.htm&usg=AOvVaw1RzabIb4oQv-iY6FzJNsl-

https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=12&cad=rja&uact=8&ved=0ahUKEwixn9LH26zYAhXP1qQKHTfxAGgQFghdMAs&url=https%3A%2F%2Fsebacestonaro.wordpress.com%2F2015%2F02%2F14%2Fmargherita-sarfatti-opere%2F&usg=AOvVaw27k0lIQ_VA8R3u4Fp-1XYj

Prof.ssa Lidia Piras

(docente di Storia dell’Arte, studiosa di Arte al femminile)

"Cagliari ritrovata" - Liceo Foiso Fois in Concerto

Domenica 9 dicembre 2018, nella straordinaria cornice architettonica della Chiesa della Purissima nel quartiere storico di Castello, gli studenti della 4^ M del Liceo Artistico e Musicale di Cagliari si sono esibiti in un concerto dal titolo “Cagliari ritrovata”.  Il coro, costituito da Beatrice Adams, Silvia Anedda, Sara Bazzano, Sara Cabras, Francesca Cogotti, Ilaria Erminio, Claudia Floris, Nicolò Lai, Luca Mereu, Nicole Monni, Giulia Poscia, Miriam Pusceddu, Valentina Saba, Riccardo Sarais, Sassi Alessia, Jacopo Serra, Giuseppe Serreli, Giovanni Spada, Valentina Usai, Michela Zuncheddu,  magistralmente diretto dalla prof.ssa Bernardetta Manis, è stato accompagnato in alcuni brani dai docenti Cinzia Contu (clarinetto), Roberta Pisano (pianoforte), Gianluca Starita (violino).  Il concerto si è svolto nell’ambito del Festival Internazionale Corale di Musica Sacra curato dal Collegium Kalaritanum.

Il numeroso pubblico che gremiva la chiesa ha sottolineato il gradimento dell’iniziativa con continui e meritati applausi. Un motivo d’orgoglio per il Liceo “Fois” e soprattutto per i ragazzi che hanno lavorato con grande convinzione e spirito di sacrificio per prepararsi all’evento.   Il repertorio selezionato comprendeva diversi brani famosi e alquanto impegnativi,  che sono stati interpretati con sicurezza e fervore dai  giovani allievi musicisti cui va tutta la nostra stima.

Grazie ragazzi per le emozioni che ci avete regalato.

 

 

Le artiste nella storia: Ôei (Sakae ) Katsushika

Ôei (ca1790\1800 – 1866) era figlia di secondo letto dell’artista giapponese Katsushika Hokusai (estremamente famoso già in vita anche in Europa). In patria viene ricordata con la qualifica di “pittrice compiuta nel suo pieno diritto”. Nonostante molti suoi lavori fossero commercializzati con il solo nome del padre, Ôei ha lasciato anche diverse opere autografe.

I commentatori si sono sbizzarriti sull’origine del nome della pittrice, che in realtà si chiamava Sakae. Alcuni ipotizzano che il nome Ôei fosse stato scelto a causa del fatto che il padre la chiamava al grido di “Oi, oi“. Secondo altri invece il nome significa “brillo”, e Hokusai l’avrebbe voluto per la figlia ironizzando su come le piaceva il Sake. Una versione meno maligna riporta che il suo nome era Ei, con una ‘O’ onoraria che lo precede, secondo l’usanza affermatasi per i nomi delle dame nel periodo Edo (XVII-XIX secolo circa).

Della vita di Ôei si sa poco. Diverse fonti dicono che sia nata quando Hokusai (1760 -1849) aveva 37 anni e altri figli, tra i quali la pittrice Otetsu morta in giovane età. Ma la vera erede artistica del pittore fu appunto Ôei, terzogenita della seconda moglie. 
Al momento di maritarsi, Ôei scelse il mercante Minamizawa Tomei, e con lui studiò arte presso il pittore Tsutsumi Torin. Ma presto divorziò dal marito, non accettando di trovarlo artisticamente mediocre.

Tornata a vivere con il padre Hokusai, Ôei lo aiutò nella sua arte e iniziò a produrre la propria; rimase con lui e lo accudì nella sua vecchiaia fino alla fine. Come riportano alcune fonti, la pittrice condivideva con Hokusai una vita quotidiana disordinata, dove l’arte escludeva ogni altro interesse; piuttosto che provvedere alla manutenzione ordinaria dell’abitazione, Ôei e Hokusai erano soliti trasferirsi periodicamente di casa, dedicandosi completamente al loro lavoro.

Padre e figlia seguivano entrambi lo stile ukiyo-e, («pittura della vita che passa, del mondo fluttuante») che fiorì tra l’inizio del 17° e la fine del 19° secolo e aprì il Giappone agli influssi occidentali. Le stampe di Scuola Ukiyo-e erano accessibili come prezzo e trattavano scene del mondo contemporaneo, della vita quotidiana, degli attori del teatro Kabuki e dei quartieri di piacere, sostituendo i solenni soggetti di tradizione aristocratica.

Ôei ci ha lasciato diverse tavole con firma, un piccolo corpus di stampe e due volumi di illustrazioni. La pittrice realizzò splendide opere con creature mitologiche e bijin-ga (ritratti di belle donne); inoltre eseguiva in incognito molti lavori poi firmati da suo padre e colorava alcuni dei suoi shunga (stampe erotiche). Nelle opere di Ôei risaltano alcune innovazioni rispetto alla precedente tradizione giapponese, caratterizzata prevalentemente da forme stilizzate e coloriture piatte. Per esempio nel Notturno in Yoshiwara la pittrice utilizza potenti tecniche di luce e ombra, studia l’effetto delle lanterne nel buio e la luce che emana dall’interno della casa da tè. La firma si riconosce nelle lettere O, I, e EI dipinte separatamente su tre lampioncini nella parte bassa del quadro. Anche nel dipinto Bella visione di fiori di ciliegio durante la notte due lanterne illuminano il viso e il kimono della donna intenta a dipingere, mentre gli alberi sono presentati in controluce. Le stelle non sono puntini bianchi, come era usuale, ma rossi e blu. Ôei si distingue anche per il tocco vivace delle sue scene: per esempio, nell’opera Tre suonatrici l’esecuzione musicale concitata si esprime tramite l’andamento curvo delle figure e la particolare angolazione dei polsi; altrettanto innovativa, per la pittura giapponese, è la scelta di inquadrare di spalle una delle musiciste, rendendo la scena ancora più naturale.

Le fonti riferiscono che la pittrice ebbe numerosi allievi; tuttavia dopo la morte del padre si fece appartata, chiudendo i rapporti con la famiglia e con gli studenti. Dal 1857, quando aveva circa 67 anni, Ôei visse da sola in un quartiere di Edo (Tokyo), guadagnandosi da vivere vendendo i suoi quadri. In questo periodo effettuò qualche viaggio, ma non è chiaro dove abitasse al momento della sua morte, nel 1866 circa. Sarà la disegnatrice Hinako Sugiura, tra il 1983 e il 1987, a riesumare la storia di Ôei con il manga Sarusuberi, (“mirto crespo”). Hinako Sugiura la descrive come uno spirito indipendente che soffre l’ombra del successo paterno. Nel 2015 Ôei ha ispirato anche un film di animazione dal titolo Miss Hokusai, dove la pittrice appare timida e riservata in pubblico, ma sicura di sé e disinvolta nel suo lavoro. In questa ricostruzione del regista Keiichi Hara, ispirata al fumetto di Hinako Sugiura, Ôei prova un misto di ammirazione e di indignazione nei confronti del padre, grande come artista ma umanamente incapace di accettare la cecità di un’altra figlia, Onao. Un allievo di Hokusai ha descritto la personalità della pittrice come un misto di ambizione, generosità ed eccentricità. Probabilmente, non essendo Ôei un uomo, il suo obiettivo di arrivare a produrre un’arte immortale appariva inappropriato ed eccentrico: coltivava grande ambizione, al punto da ripudiare un marito di scarso talento (alcune fonti dicono addirittura che Ôei fosse solita deriderlo per la sua pochezza); era determinatissima nell’imporre la propria visione artistica; disprezzava le occupazioni femminili tradizionali e trascurava la cura della casa. Questo modo di agire, ritenuto deprecabile dalla società del tempo, trovava un contrappeso in altri comportamenti di Ôei che apparivano più modesti e fedeli alla tradizione: la decisione di dedicarsi anche da sola, fino all’ultimo, all’assistenza del padre anziano; la scelta di farsi carico della sorella minore priva di vista; la risoluzione di scomparire alla morte del padre: pur continuando a dipingere, l’attività di Ôei proseguì in maniera meno appariscente, tanto che le tracce di lei si persero in breve tempo. Un epilogo collaudato: il processo di oscuramento del talento femminile passa non solo attraverso il silenzio della storia ufficiale, ma a volte anche attraverso una censura interiorizzata dalle donne stesse. Nel caso di Ôei, alla fine l’artista sembrerebbe essersi arresa all’imperativo sociale che la voleva modesta e riservata nonostante tutta la sua vita precedente sia stata un grande lavoro di costruzione di sé. Nella persistenza della sua memoria hanno avuto un peso particolare diversi aspetti, come il fatto che Ôei si sia impegnata a conquistare il titolo di pittrice specializzata, abbia avuto cura di apporre la propria firma almeno nei lavori più importanti e abbia trasmesso i propri saperi a numerosi allievi. In particolare la scelta di tenere scuola accomuna Ôei a molte altre artiste, impegnate non solo ad esibire il proprio talento ma anche a generare, come madri simboliche, una successione. In tal senso colpisce che la storia di questa pittrice sia stata raccontata prima fra tutti da Hinako Sugiura, che a sua volta ha avuto anche il merito di trasformare la tradizionale formula dei manga – prevalentemente a soggetto maschile – in un genere capace di comprendere anche il femminile: attraverso questa disegnatrice manga, l’eredità di Ôei si conferma ancora estremamente prolifica nel tempo.

 

Fonti, risorse bibliografiche, siti

Siti utili

https://studiaregiapponese.com/2016/05/25/la-grande-artista-oui-nel-nome-e-allombra-del-padre/

https://wiki.samurai-archives.com/index.php?title=Katsushika_Oi
su Sugiura Hinako http://www.zoomjapan.info/2015/10/12/no35-portrait-the-incredible-sugiura-hinako/

 

Prof.ssa Lidia Piras

(docente di Storia dell’Arte, studiosa di Arte al femminile)

Articolo pubblicato in http://www.enciclopediadelledonne.it/

 

Informazioni aggiuntive